11/06/2019 | A margine di Eventone4 (edizione 2019) abbiamo intervistato Simone Pelizza, dal 2014 collaboratore de Il Caffè Geopolitico, su tematiche legate alle libertà negate in Asia.
Per iniziare, potrebbe fornirci una quadro generale della situazione dei diritti umani nel Sud-Est Asiatico?
La situazione è critica in quasi tutti i paesi della regione e rappresenta una brusca smentita delle previsioni ottimistiche dei decenni scorsi. Negli anni Novanta e primi anni Duemila, infatti, molti osservatori occidentali erano convinti che le libertà democratiche avrebbero fatto significativi progressi nel Sud-est asiatico grazie alla sostanziale integrazione dell’area nell’economia globale. Ma così non è stato e il maggiore dinamismo economico dei paesi locali non si è tradotto in una liberalizzazione delle istituzioni politiche. Al contrario, si è registrato un regresso persino in paesi come Thailandia e Filippine che sembravano avviati, seppure tra molte difficoltà, verso sistemi democratici più o meno stabili. I motivi di tale “inversione di tendenza” sono molteplici: l’accentuarsi di gravi disparità sociali, il persistere della corruzione nella vita pubblica, l’ascesa di movimenti nazionalisti o fondamentalisti, la crescente influenza politico-economica della Cina.
Spostiamoci in Myanmar. Aung San Suu Kyi (premio Nobel per la pace nel 1991) era al governo quando è stata perpetuata la persecuzione dell’entina Rohingya e non ha mai aperto un’inchiesta formale sui militari che hanno commesso crimini durante il regime: si può affermare che il regime non sia finito in Myanmar?
Parto dalla fine: sì, purtroppo il regime militare non è mai davvero finito in Myanmar. La nuova Costituzione del 2008 ha infatti lasciato ampi poteri al Tatmadaw [le Forze Armate birmane] e la grande vittoria elettorale della Lega Nazionale per la Democrazia (LND) di Suu Kyi nel 2015 non ha scalfito minimanente tale situazione. Anzi, il governo civile della LND ha finito per legittimare – volente o nolente – molte delle politiche repressive portate avanti dai militari, inclusa quella contro i Rohingya nel Rakhine.
Tra le libertà civili, quella di espressione sappiamo essere particolarmente limitata in Myanmar, in che modo?
La legislazione del paese su temi come la libertà di stampa resta pesantemente influenzata dalla disposizioni restrittive dell’era coloniale e del periodo della dittatura. Lo prova il drammatico caso di Wa Lone e Kyaw Soe Oo, i due repoter Reuters imprigionati per oltre 500 giorni per aver indagato su un massacro di Rohingya nel 2017. La loro detenzione è stata giustificata sulla base di una norma coloniale del 1923 e Suu Kyi si è di fatto opposta a lungo alla loro liberazione, confermando la propria acquiescenza verso l’atteggiamento censorio dei militari.
Cambogia. Negli ultimi anni, il landgrabbing per la conversione di risaie (ad uso familiare) in piantagioni di canna da zucchero (usate per l’esportazione verso multinazionali) sta determinando violazioni in diritti umani, come denunciati dal movimento Clean Sugar Campaign . E’ recente (febbraio 2019) la decisione della UE di sospendere gli aiuti internazionali (EBA) come strumento di pressione per la tutela dei diritti dei contadini e il rilascio di attivisti arrestati. Quale è la situazione al momento: la sicurezza alimentare, il diritto di espressione e manifestazione, sono garantiti o vige un regime repressivo – una democratura delle oligarchie economiche?
La Cambogia è ormai governata da oltre trent’anni da Hun Sen, il leader politico che ha guidato la ricostruzione del paese dopo il genocidio dei Khmer Rossi e l’occupazione vietnamita. Sotto di lui la Cambogia è entrata a far dell’ASEAN [Associazione delle Nazioni del Sud-Est Asiatico] e ha registrato un notevole sviluppo economico, accompagnato però da gravi disuguaglianze sociali e corruzione diffusa. Negli ultimi due-tre anni Hun Sen sembra aver deciso di restringere ulteriormente le maglie delle libertà politiche per evitare il ripetersi rischioso dell’esito elettorale del 2013, quando il suo partito vinse di misura contro l’opposizione guidata da Sam Rainsy. Non a caso oggi Rainsy è in esilio all’estero e il suo partito è stato sciolto con una controversa sentenza giudiziaria. Di fatto non esiste più nel paese una vera opposizione indipendente; legami clientelari e repressione governativa consentono al premier e ai potentati oligarchici ad esso legati di controllare la scena politica in tutta tranquillità. Tale situazione favorisce anche la Cina che sta investendo parecchie risorse in Cambogia nell’ambito dell’ambizioso progetto della Belt and Road Initiative (BRI). Per il regime di Hun Sen l’amicizia cinese è sempre più importante per superare le pressioni diplomatiche internazionali e questo lo porta a prestare poca attenzione alle pratiche abusive di molti progetti infrastrutturali promossi da Pechino, specialmente quelli legati allo sfruttamento del fiume Mekong e delle terre circostanti.
Corea del Nord: cosa si sa davvero dei negoziati per la riunificazione della Corea e di quelli con Trump? Ci sono prospettive reali di un cambio di faccia da parte del regime?
Al momento i negoziati tra Corea del Nord e Stati Uniti sono praticamente fermi. Il fallimento del vertice di Hanoi a febbraio ha esposto i limiti della distensione vista l’anno scorso, specialmente sul tema scottante della denuclearizzazione. L’amministrazione Trump continua a ostentare ottimismo, parlando di un futuro terzo vertice con Kim, ma al momento tale opportunità appare piuttosto remota. Nel frattempo il regime nordcoreano punta a mantenere il dialogo con la Corea del Sud e a rinverdire i rapporti con i suoi partner storici, cioè Russia e Cina, per cercare di attenuare gli effetti delle sanzioni internazionali. Allo stesso tempo è improbabile che il governo di Pyongyang faccia concessioni sul tema dei diritti umani. Piuttosto c’è da attendersi un’ulteriore intensificazione delle sue politiche repressive in risposta alle crescenti difficoltà economiche provocate dalle sanzioni.